GROWL in Italy

Welcome to the grind

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THE BEYOND

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Recensione a cura di: Nina Ramirez

THE BEYOND
“Decaying Death”

Quattro tracce di puro death metal che corrispondono appieno alla descrizione della band nella loro biografia, un voluto omaggio a quelli che sono i capolavori indiscussi della meta anni 90′, soprattutto tra Obituary  e  Napalm Death. Il progetto The Beyond nasce due anni fa dalle ceneri dei Deformed Agony, il tutto made in Trento. Questo EP autoprodotto è stato registrato ai Cremisi Studio di Cadine (Trento) con il produttore Francesco Nardelli.
Le quattro tracce presentano un esecuzione di tutti gli strumenti e della voce “eccellente” per quello che riguarda il genere proposto a cui loro si rifanno, non c’è una sostanziale diversità di stesura nei brani proposti, interessanti in Mass Lobotomy i passaggi di blast di Corrado Menegatti. 
Una band con una spiccata potenzialità tecnica, che non delude sicuramente i fans del death metal vecchio stampo. Attualmente in fase di promozione e scrittura di nuovi brani, con l’auspicio di un tocco di personalità in più in fase componitiva. 
voto 8/10

Tracklist:

1. Decaying Death
2. Crime And Punishment
3. Tortured ‘Till Redemption
4. Mass Lobotomy


Formazione attuale:
Corrado Menegatti: drums
Federico Visintainer: guitars
Michel Catalisano: vocals
Michele Segata: guitars
Moreno Visintainer: bass
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RED SKY

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Recensione a cura di: Nina Ramirez

RED SKY
“ORIGAMI”
Un titolo insolito per un album discografico all’apparenza, ma che racchiude esattamente, come la stessa arte giapponese dell’origami, un intreccio di suoni, melodie ed atmosfere provenienti tutte da una concezione pulita, semplice e seducente nate dalla mente di questo artista poliedrico. E’ difatti un disco sfornato in toto da un unico compositore, noto come l’artista mascherato, per il semplice fatto che, fin dalla nascita del progetto Red Sky,  ha cercato di creare un aurea nascosta del suo personaggio proprio per dare valenza unicamente alla musica che compone. Questo Lp autoprodotto, è un disco molto interessante che presenta una grande ricerca sintetica, ma penetrante, delle melodie pulite in tutti gli strumenti che vengono utilizzati nei vari pezzi, e, solo alcuni presentano qualche accenno di cantato sottoforma di piccole poesie dedicate all’amore, alla pace, alla ricerca dell’io interiore, poche parole per far riflettere l’ascoltatore. Non a caso, questo interessante artista fa parlare di se sempre all’avvicinarsi del periodo dell’amore, una sorta di omaggio verso il prossimo, uno sguardo a chi si vuole bene ma anche a chi è solo.
Con un soave intro “Goccie di eternità“, capitanato da cello in stile Ashram, ecco entrare nel sogno di Red Sky come se ci prendesse per mano, in “Temporale notturno” ci attrae una sequenza di frenetici riff di chitarre tra acustica ed elettrica, con alcuni passaggi quasi heavy, il tutto ben confezionato da una solida base di tastiere e parti orchestrali condite da un buon ritmo di batteria. “Andalusia (Nostalgia di un tramonto)” un pezzo che inizia con un entusiasmante gusto spagnolo a richiamo dello stesso titolo dedicato alla regione più calda e passionale della Spagna, un tocco di vitalità  tra intrecci di mandolino  che assieme al lavoro di batteria danno vita ad una vorticosa sessione ritmica. Ci fa tornare in mente qualche atmosfera di suoni tipica degli ultimi lavori del francese Alcest la canzone “Ti ho sfiorata  nei miei sogni”, un appassionante turbine di emozioni e sensazioni ammaliatrici. Riff in stile heavy forse un po’ scontati in “La notte si innamorò del sole”, mentre notevole è in “Il filo rosso” la morbidezza dei suoni creati dai pochi passaggi di chitarra ma essenziali per immergerci in un atmosfera a richiamo degli statunitensi Agalloch in contrapposizione con il cantato/parlato dell’artista il quale, anche se entra in modo freddo, ci intriga perfettamente nella sua ragnatela utilizzando una credenza tipica giapponese legandosi ancor più al titolo stesso dell’album. “La voce dei tuoi occhi che mi rende pazzo” forse il pezzo più commerciale del disco, non a caso ne uscirà il video a breve, presenta gli ormai classici riff rockettari/heavy di Red Sky ed un testo dedicato ad un’amata sempre poco ricercato ma mai banale. “Origami” è un dolce pezzo di passaggi acustici di chitarra e piano incentrato sul titolo dell’album. Si ritorna ad un saltellato folkeggiante di mandolino con “Alla prossima (Forse un giorno ci rivedremo)” e nonostante ritorni la dedica all’amata, funge da risvolto positivo all’abbandono degli amori perduti, un buon metodo per non perdersi d’animo. Si chiude il sogno di Red Sky con “L’ultimo petalo” lasciandoci alcune riflessioni  sulla vita e sul suo operato “…e ogni brano è una parte di me, che vola via, libera..come un petalo nel vento. Vivere per suonare..suonare per vivere…” un raffinato connubio di teatralità a decretare la fine di questo interessante lavoro, seguono due bonus track, “L’ultimo petalo” in una versione più malinconica con voce soffusa, e “E poi silenzio” dove vi partecipa il guest vocale di Aurora Rosa Savinelli.
Un disco contenente dei bei pezzi atmosferici e molodici seppur non tutti i pezzi sanno suscitare eguali emozioni, una soave poesia incantevole di alternative sperimentale tutto italiano da tenere d’occhio.
SETLIST:

  1. Gocce Di Eternità (Intro)
  2. Temporale Notturno 
  3. Andalusia (Nostalgia Di Un Tramonto) 
  4. Ti Ho Sfiorata Nei Miei Sogni 
  5. La Notte Si Innamorò Del Sole
  6. Il Filo Rosso
  7. La Voce Dei Tuoi Occhi Che Mi Rende Pazzo
  8. Origami 
  9. Alla Prossima (Forse Un Giorno Ci Rivedremo)
  10. L’Ultimo Petalo (feat. Alberto Bernasconi)
  11. L’Ultimo Petalo – Acoustic Version (feat. Alberto Bernasconi) [Bonus Track]
  12. E Poi Silenzio Pt.2 – Acoustic Version (feat. Aurora Rosa Savinelli) [Bonus Track]
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MECHANICAL GOD CREATION

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Recensione a cura di: Simon

MECHANICAL GOD CREATION
“ARTIFACT OF ANNIHILATION”

Tornano i Mechanical God Creation con il loro secondo album Artifact of Annihilation, che conferma le grandi doti della band seppur 2/5 del combo lombardo, dopo le registrazioni, hanno abbandonato.
Il chitarrista Davide e il batterista Manuel, che in studio ha mostrato il suo valore con un drumming furioso ed assassino, ma prontamente sostituiti da Michy (batteria) e Salva (chitarra), che si aggiungono così a Veon (basso e backing vocals), Ale (chitarra) e la feroce Lucy che in studio e in live, ci aggredisce con il suo growl/scream micidiale.
E’ proprio la title track che dopo il postapocalittico intro Pyramidion, ci da il micidiale benvenuto, l’album si apre così con la violenza ,non fine a se stessa, dove tutte le scuole death metal dai fini anni 80 in poi vengono ben miscelate. Brutalità, melodia, tecnica si fondono per uno stile personale in linea con molte uscite recenti, come nel caso di un altra grande act italiana: gli Hour of Penance. Un sound fresco ed ispirato con le chitarre che macinano riff su riff e assoli letali, in un susseguirsi di cambi di tempo e ritmiche vorticose, dove si staglia la voce infernale della brava Lucy.
Anche la produzione cui il mixaggio è stato curato nei canadesi Garage Studio da Chris Donaldson (Criptopsy) segue i canoni odierni. Sinceramente questa scelta sonora effettata e moderna rende il tutto troppo artificioso e plasticoso, certo ormai è la prassi e questo è un mio giudizio personale, oggettivamente l’album suona bene ed è altamente competitivo, ma avrei preferito qualcosa di meno pulito e più “sporco”.
La carneficina continua incessante fino alla sesta traccia, Lullaby for the Modern Age, una strumentale atmosferica aperta da un triste piano. Un momento per riposarci dalla battaglia e gustarci come nell’occhio di un ciclone, il cielo limpido sopra le nubi tempestose. Interessante l’alternanza di assoli di chitarra ma anche di basso, sfoggio di tecnica ma non ridonante.
Poi si riprende la furia sino all’altra song che spicca per particolarità, Ocean of Time, cui la band punta sul groove di ritmiche sostenute, ma sempre letali.
In conclusione questa seconda fatica è promossa, per una band che tiene alta la nostra bandiera e dimostra che ormai abbiamo di quelle formazioni che non solo posso rivaleggiare con i nomi stranieri, ma anche surclassarli.

Voto: 8
SETLIST:

  1. Pyramidion 
  2. Artifact Of Annihilation 
  3. Illusions 
  4. Cult Of The Machines 
  5. Shadow’s Falling
  6. Lullaby For The Modern Age
  7. Terror In The Air 
  8. Nomos Of The Earth 
  9. Woe Of The Spiraled Desire
  10. Ocean Of Time
  11. Obsidian Nightfall 
FORMAZIONE ATTUALE:
Luciana Catananti – Vocals
Alessandro Maffei – Guitars
Salvatore Maffei – Guitars
Andrea Marini – Bass & backing vocals
Michele Pintus – Drums
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LOGICAL TERROR: “ALMOST HUMAN”

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Recensione a cura di: Nina Ramirez

LOGICAL TERROR
“ALMOST HUMAN”
I Logical Terror li abbiam potuti vedere ben due volte in live. Questo eccellente gruppo emiliano, che sul palco riesce a far saltare anche i più timidi, ha saputo ben esaltare la sua grinta e la sua energia già dal loro album di debutto: “Almost Human”. Ma chi sono questi Logical Terror? Questi cinque ragazzi, nascono nel 2010 dalle ceneri di ciò che eran i Marplots, e diciamolo pure, in soli due anni han saputo farsi strada nella scena underground con un talento, sicuramente maturato anche nel tempo e dall’esperienza, ma senza dubbio il loro merito è proprio quello di essere stati in grado (al contrario di tantissime altre band italiane che, ahimè, propongono scarsa qualità in live e una mistura di dischi con pezzi anche aggressivi ma concepiti tutti con lo stesso stampino) di coniare una proposta, seppur intrisa di sfumature, diciamolo pure ‘modaiole’, ma con una certa effettistica e melodicità tecnica ben servita con un talento, una grinta, e degli show da veri headliner!!
“Almost Human” è il loro primo album uscito nel 2011, prodotto da Dualized e Eddy Cavazza per la dysFUNCTION Productions , il master è a cura di Ray Parenti.
La percezione ad un primo ascolto, è sicuramente una scelta leggermente più soft e commerciale nell’insieme. Cosa manca? Manca solo quel certo coinvolgimento accattivante che riescono ad esprimere con quel pelo di cattiveria negli show. In generale, stiamo comunque parlando di un lavoro “egregio” e di una scelta ponderata a dovere per quanto ne concerne la promozione e la facile presa nell’ascolto. La cattiveria non manca, è solo miscelata ad una martellante mole di suoni sintetici e groove tecnici da pelle d’oca! L’album contiene momenti di puro death melodico,  un pò di cyber thrash con accenti core, e qualcosa di nu-metal, a richiamare gruppi come Fear Factory, Mnemic, Deftones, Soilwork.
I pezzi che riflettono al meglio la proposta dei Logical Terror sono sicuramente “Monad 61”, “Unfilled”, “Collapse”, “Facing Eternity”. Ciò che più intriga di questo lavoro sono i blast beat e qualche breakdown martellanti della batteria che ben compongono i pezzi di una certa potenza ritmica, corollati da riff e giri di basso per niente scontati e di altrettanto spessore stilistico. Il coinvolgimento è infine dato dalle due voci graffianti ed energiche, tra un melodico ed un growl, di Emi & Sic, che si intervallano in modo sapientemente geniale!

EMI – Vocals
SIC – Vocals
ASH – Guitars
SID – Bass
THOR – Drums

 Tracklist:
01. Nameless

02. Gender 3000

03. Monad 61 (feat. M.V. on vocals from Disclose)

04. Unfilled

05. Degenerate/Regenerate

06. Collapse (feat. Miguelon on vocals from Overflow)

07. Self extinction

08. Facing Eternity


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THE SECRET

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Recensione a cura di: Simon

THE SECRET
“AGNUS DEI”
Chi ha amato il debut Salve et Coaugula non potrà non amare questo secondo capitolo dei The Secret, band italiana di cui andare fieri ed orgogliosi, visto che all’estero già ci vengono invidiati ed adorati. 
Ancora una volta la formazione friulana fa quello che sa bene fare, “ESSERE SE STESSA”, miscelando il meglio dei generi estremi come death, black , hardcore e doom, riuscendo in quello che in molte band, sopratutto retrò, non riescono a realizzare. 
Ovvero quello di far rivivere un certo metal estremo dei primi e sulfurei anni 90, quando la Scandinavia vomitava sul mondo orde di legioni infernali come i Darkthrone o i Nihilist
La title track Agnus Dei è l’ossidiano benvenuto in un calderone infernale oscuro e bollente, perfetta opener per capire cosa ci attende nel resto dell’album: dolore
Le successive May God Damn All of Use Violent Infection non superano ciascuna i 90 secondi, perché i Nostri hanno imparato bene la lezione della prima scuola grindcore,  fare male con colpi rapidi e letali. Non a caso si può metaforicamente vedere le seguenti  tracce (cui i picchi di lunghezza non superano i 3 minuti e mezzo) come una sorta di pestaggio  atto contro l’ascoltatore, dove  i vari brani sono come colpi inferti al volto, al linguine, alle costole e in altre parti, con sadica ferocia. Solo tre sono i pezzi  che si possono considerare “lunghi”, visto la media del resto dell’album. 
Le canzoni più mistiche ed occulte della tracklist, come poste ad accogliere il Nero Capro, giunto a vedere come siete ridotti in questa violenza sonora.
 Vermin of  Dustmalvagia marcia ferale di un antico (scandinavo) death metal, l’infernale  Darkness I became e la doomeggiante  Heretic Temple, altri brani egregi dove non s’inventa nulla di nuovo, ma suona dannatamente fresco ed ispirato. 
A chiudere l’album giungono i  colpi di grazia di The Bottomless Pit , Osbcure Dogma e la ghost track Seven Billion Graves
Applauso  per Kurt Ballou produttore di Agnus Dei, che grazie ai suoi Goldcity Studios, ha colto lo spirito profano e demoniaco dei The Secret, riuscendo a ricreare un suono malsano e ottenebrante, che non è mai cacofano e confuso nei momenti più rabbiosi.

Concludendo, che dire: bravi ragazzi, non avete deluso le aspettative. E voi cosa aspettate? Non volete farvi picchiare da loro?

voto: 8

01. Agnus Dei
02. May God Damn All Of Us
03. Violent Infection
04. Geometric Power
05. Post Mortem Nihil Est
06. Daily Lies
07. Love Your Enemy
08. Vermin Of Dust
09. Darkness I Became
10. Heretic Temple
11. The Bottomless Pit
12. Obscure Dogma
13. Seven Billion Graves
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DRAUGR – DE FERRO ITALICO –

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Recensione a cura di: Wild Wolf

DE FERRO ITALICO


Vede la luce nel 2011 uno dei migliori album pagan/black metal della scena italiana, firmato Draugr. La band, il cui nome è la sintesi tra la parola “Draug” (“lupo” in Sindarin, lingua immaginaria dell’universo Tolkien) e “Draugr”, creatura non-morta della mitologia norrena (letteralmente, in inglese antico, la parola significa “fantasma”), è di origine abruzzese, e si forma dalle ceneri di una black metal band sviluppatasi sulla scia lasciata della più estrema scena nordica nata tra la fine degli anni 80’ e l’inizio dei 90’, e rappresentata, fra le altre, da band quali Marduk, Immortal o Dark Throne. La line-up, inizialmente composta da Svanfircome cantante, Tenebrion e Triumphator, rispettivamente come primo e secondo chitarrista, Stolas al basso e Nifelheim alla batteria, dopo la realizzazione di un primo demo black/thrash metal, intitolato “Spirits of the North” e numerosi live, cambia, registrando, da un lato, l’abbandono del chitarrista Tenebrion, e, dall’altro, l’arrivo, prima come nuovo chitarrista, di Mors, e dopo, come tastierista, di Arctos, permettendo alla band, così, di potersi sperimentare anche in generi differenti rispetto al black metal “duro e puro”. Il risultato sarà la nascita di uno stile musicale che sviluppa una melodia black metal grazie ad arrangiamenti folk/epic/power metal, e che verrà definito dalla stessa band come “Italic Hordish Metal”. L’ottima riuscita di questo esperimento musicale sarà, nel 2011, l’album “De Ferro Italico”, interamente auto-prodotto in numero di 500 copie (anche se attualmente in ristampa grazie alla casa discografica “To React Records”), comprensivo di dieci tracce per una durata totale di circa un’ora.

Il genere che in questo lavoro ci viene proposto si inserisce, evidentemente, sulla strada aperta da folk metal band nordiche, soprattutto finlandesi, quali Ensiferum o Finntroll, ma se ne distingue, come, del resto, è logico che sia per band spagnole, francesi, o italiane, per re-interpretare questo folk/epic metal in una chiave maggiormente vicina a tradizioni e miti nostrani, utilizzando, di conseguenza, una diversa strumentazione tradizionale, modificando quelle che sono le classiche tematiche legate alla mitologia norrena, e plasmando, anche da un punto di vista prettamente stilistico, un differente genere musicale, che potremmo etichettare (cosa che odio fare, ma è per rendere meglio l’idea…) più come celtic/pagan metal che viking. Fatta questa premessa, ed iniziando ad analizzare le caratteristiche dell’album, c’è subito da mettere in risalto l’ottima qualità sonora dell’opera (cosa quanto meno inusuale per un CD auto-prodotto), nella quale tutti gli strumenti sono perfettamente udibili, merito soprattutto del lavoro dell’ingegnier Mika Jussila nel suo studio di Helsinki, dove oramai conta all’attivo la masterizzazione di più di 2000 CD, e di Davide Rosati, degli ACME Studios. Per quanto riguarda il tema, i Draugr in questo concept-album, come emerge dall’intro “Dove l’Italia Nacque”, affrontano uno dei topic maggiormente cari a professori e libri di storia italici, e non solo: quello della cristianizzazione di buona parte dell’Europa, avvenuta quando, nel 392 d.C., Teodosio I, influenzato e coadiuvato da S.Ambrogio, mise definitivamente al bando la religione pagana in tutto l’Impero Romano, dando completa attuazione all’editto di Tessalonica di undici anni prima, e sdoganando, sciaguratamente, come spesso avviene nello schieramento dei vincitori di una guerra, anche tutta una frangia di estremisti, cristiani nel caso, che si accanirono rabbiosamente sulle rovine materiali e spirituali del mondo pagano. I Draugr, di conseguenza, dedicano quest’album a tutti coloro i quali, nel corso dei secoli, si sono opposti, in nome di quella visione di mondo, all’inesorabile dominio della chiesa cattolica.
Tornando ad analizzare singolarmente le tracce di questo album, passato l’intro, la seconda traccia in ordine numerico è “The Vitulean Empire”, l’unica in inglese di tutto il CD, la quale fa subito trapelare, neanche troppo velatamente, le radici black di questa band, ed, in particolare, riporta alla mente sensazioni melodic black metal, grazie al cantato acre e sofferente di Svanfir, che ricorda quello di Hreidmarr, ex frontman degli Anorexia Nervosa; cantato in scream che, però, durante tutto l’album, si alternerà magistralmente con un cantato in growl, maggiormente rapportabile all’ambito folk metal, ed entrambi saranno accompagnati ed esaltati da background vocals, che il più delle volte saranno composte da cori, di battaglia o da osteria, a seconda delle esigenze. Questa parte melodica ben si fonde con dei riff di chitarra che, specialmente in questa seconda traccia, saranno solidi e violenti, ai limiti di un power metal molto tirato, i quali, per altro, spesso e volentieri daranno spazio, susseguendosi e succedendosi, a passaggi folk molto coinvolgenti, mentre il drumming resterà, per l’intera traccia, costante e massiccio, quasi marziale. Il continuo alternarsi di queste due anime musicali sarà una costante dell’intera opera dei Draugr e, non a caso, porta alla mente, per analogia, un’altra pagan metal band del Sud Europa, i francesi Aes Dana, a conferma di una comunque evidente differenziazione attitudinale rispetto al filone viking nordico. Da segnalare l’assolo di chitarra di Trumphator al minuto 3:50.

La traccia seguente, “L’Augure e il Lupo”, è decisamente più su connotati folk, i riff sono meno cupi e violenti, ed è il flauto a mettersi in mostra (ed il contributo non è uno qualsiasi, ma quello di Maurizio dei Folkstone), mentre, da un punto di vista armonico, le chitarre paiono quasi adagiarsi su tempi e toni dettati da questo strumento. Inoltrandoci nel brano, e con l’avanzare dei secondi, ciò nondimeno, le chitarre riconquistano la loro supremazia sonora, tramite riff colmi d’espressività power metal, e la voce, al pari dell’arrangiamento che alterna passaggi d’inferno, più ferali, di stampo black metal a passaggi d’osteria, più festaioli, di stampo folk metal, è ora lancinante, ora solenne. In questa traccia, inoltre, torna l’Italiano, che non sparirà più per tutto il resto dell’album.

Il quarto brano “Ver Sacrum” è, verosimilmente, la traccia più vivace dell’album; l’inizio, non senza che un sorriso increspi il volto dell’ascoltatore, ricorda i finlandesi Korpiklaani, i quali, come molti ricordano, hanno fatto esordire la loro “Beer Beer” con un grugnito di un maiale; in questa traccia i Draugr, al contrario, inseriscono come inizio il grugnito di un cinghiale, ed il testo, non a caso, parla della “Primavera Sacra”, periodo nel quale i pagani, dopo aver risparmiato dal sacrificio i propri primogeniti, ed una volta aspettato che fossero divenuti adolescenti, li facevano migrare allo scopo di creare una nuova comunità in territori ancora inesplorati; i ragazzi, per realizzare l’impresa, seguivano “le orme della guida ancestrale” (come cantato nella prima strofa da Svanfir), ovvero le orme di un animale che di solito risultava essere un cinghiale, e che, tramite le sue impronte nel bosco, batteva il percorso da seguire per i giovani romani. Da un punto di vista strumentale, l’armonia mette in risalto il flauto, mentre le chitarre alternano continuamente, con un’accuratezza degna del chirurgo Celso, passaggi più ferali ad altri più distesi. Da segnalare la presenza, tra gli strumenti tradizionali, dell’organetto a rullo, il quale fa da sfondo sonoro ad un ricco banchetto con susseguente brindisi nel bel mezzo della traccia (minuto 2:30), mentre il finale è un inferno di blast beat e scream, con cori in sottofondo.

La successiva, “Suovetaurilia”, è, invece, e con buona probabilità, grazie ai suoi dieci minuti di durata, il pezzo più potente dell’intero CD, e, non a caso, il testo parla dell’ ars pagana in tutte le sue possibili sfaccettature; dalla famiglia alla guerra, dalla magia al culto, l’ascoltatore è proiettato all’istante in un accampamento romano dove i pagani celebrano la propria abilità e la propria predisposizione alla guerra contro i cristiani.
Dalle terre italiche, un grido si alzerà
di un popolo libero che la croce abbatterà
ululano i lupi, ringhiano le belve,
indossano armi e scudi delle stirpi sabelle.

In questa traccia, come in quella precedente, è il flauto a farla da padrone (è pazzesco, ci sarebbe da chiedersi come fa a suonare così velocemente), mentre il cantato, questa volta maggiormente in growl, che ricorda Helge Stang, ex frontman dei tedeschi Equilibrium, si alterna perfettamente con lo scream. Nel mezzo della traccia, intorno al quinto minuto, c’è addirittura spazio per un inserto folk stravagante ed esilarante, in stile Trollfest, realizzato da un organetto a rullo, un liuto, il solito flauto, e cori da beoni in sottofondo. Dopo questo intermezzo, ci si ributta subito a capofitto nell’anima di questo album, che vive di un drumming incessante, mentre respira energici ed imponenti riff di chitarra, i quali ci conducono verso il finale della traccia, che prende vita sotto un cielo stellato, con una chitarra suonata di fronte ad un falò ardente.

Con “Legio Linteata”, il sesto brano, a parere di chi scrive, si tocca l’apice di questa creazione artistica sulla linea di confine tra storia e musica; il primo, breve intro di trenta secondi è uno sferzante e rigido vento invernale sulle cime innevate degli Appennini, che subito, però, lascia il posto al contributo di un altro componente casa-Folkstone, Lore, il quale, con la sua cornamusa, inizia a dipingere un accompagnamento sonoro che arricchisce notevolmente il sound dei Draugr, al quale, presto, si aggiungeranno l’organetto abruzzese ed il basso di Stolas, mai in evidenza, fino ad ora, come in questa traccia; ed insieme, questo impossibile e curioso trio, creerà una costruzione armonica micidiale, che consentirà di mettere in risalto tutta la grande ispirazione artistica dei “lupi” abruzzesi. La batteria di Nifelheim continua a trascinare, scandire, sviluppare il tempo della canzone e colorare ogni singola nota di ogni altro strumento di un proprio significato, le chitarre evidenziano, ancora una volta, la vastità dei propri repertori, mentre, al minuto 3:45, una nota di merito va al tastierista Arctos, il quale, insieme ad una fisarmonica, riesce a creare un passaggio molto eclettico e coinvolgente. Dal quarto minuto in poi, si gira nuovamente su linguaggi più power metal, e le sei corde tornano a coprire tutte le altre sensazioni acustiche, la parte melodica, ora scream, ora growl, risulta allo stesso tempo acida ed imponente, mentre le background vocals continuano ad acclamare solennemente la “Legio Linteata”, un’ unità militare d’elite sannita che, dopo un giuramento agli dei, diveniva una casta di guerrieri votata al sacrificio estremo pur di difendere il proprio popolo. Il brano si chiude con Svanfir che urla “Abruzzo Pagano!”.

La successiva strumentale “Ballata d’Autunno” è il pezzo ideale per riprendere fiato, ma anche per apprezzare, grazie alla melancolia del flauto, la profondità e la poeticità di tempi ormai perduti.
L’ottava traccia, “Inverno”, è quella che più evidenzia la natura black di questa band; la canzone parte con trenta secondi di screamininterrotto, spariscono flauti, organetti e simili mentre sono i blast beat a recitare il ruolo da protagonista sul palcoscenico, con chitarre e basso, gravemente distorti, che lo reggono maestosamente; il brano è di una furia che colpisce, ma non stona, rispetto al resto dell’album, e il cantato di Svanfir si dimostra più che mai all’altezza. Il testo, una lirica di doloroso splendore, narra, come suggerisce il titolo, di quanto nient’altro se non la rigidità climatica getti in uno stato di precarietà l’uomo, ma al tempo stesso lo faccia rendere cosciente di quale è la sua posizione nei confronti dell’universo e della Natura, e di quanto debba tutto, compresa la sua esistenza, ad Essa. Nel mezzo della traccia, che rallenta molto poeticamente, la melodia è portata avanti dal basso, la chitarra, sospese le distorsioni, suona degli accordi estremamente incantevoli, mentre la batteria si lascia andare a delle sole rullate. Il finale, per la spietatezza che lo contraddistingue, si riallaccia all’inizio del brano, proprio come l’Inverno è l’inizio e la fine di un anno solare, o il carnefice e il custode della vita. Magnifica traccia.
Il penultimo brano in scaletta è “Roma Ferro Ignique”, che ben rappresenta, per ferocia e maestosità, la conquista di Roma da parte dei pagani, che poi ne celebrano la grandezza. Cattura sicuramente l’attenzione l’intermezzo a metà traccia in cui la cornamusa di Lore si mette in evidenza facendo da sfondo sonoro ad un amplesso udibile grazie ai gemiti femminili, con la batteria a puntellare e sostenere l’immaginario collettivo.
Conquista di Roma che, per altro, a causa del copione già scritto da altri qualche millennio fa, deve essere ceduta nella track conclusiva del CD, “De Ferro Italico”, brano che racconta la battaglia conclusiva tra cristianesimo e paganesimo, e la definitiva resa di quest’ultimo; battaglia impersonificata, come in ogni storia che si rispetti, dall’eroe Sannita da un lato, e, dall’altro, dall’eroe romano convertito. La traccia, nei suoi dieci minuti abbondanti, è una sintesi di quanto meglio i Draugr ci hanno fatto ascoltare in questa opera d’arte; attacchi strumentali ferali e veloci, stacchi, intermezzi, e ripartenze; assoli di chitarra, passaggi armonici di basso, inserti folkloristici grazie a flauti od organetti, inferni di blast beat, sovrapposizioni continue tra cantati in growl e scream con le background vocals, e melodie che ondeggiano tra il black ed il folk, tra il power ed il pagan metal. Il finale dell’album, con la sconfitta del Sannita sul campo di battaglia, lo conosciamo grazie ai libri di storia:
Respingo una realtà di schiavitù e ipocrisia,
accetto il mio destino, qualunque esso sia,
per l’ideale ultimo sono disposto a lottare,
per un domani nuovo, come un fulgido albeggiare

Tolte le cuffiette, dopo un viaggio storico-musicale di un’ora tanto profondo e coinvolgente, non si può che restare rapiti ed ammaliati. Colpiscono i testi, per la loro elevata cultura e per la loro incantevole musicalità; colpisce l’utilizzo, oltre che dell’Italiano, del latino e dell’Osco (antica lingua parlata nelle zone d’origine della band); colpisce la naturale predisposizione all’ascolto che questo album fa nascere dal primo all’ultimo secondo, nonostante la, comunque, considerevole durata. Confonde il motivo per cui questa band sia ancora senza l’appoggio di una casa discografica.

Tombe senza nome, la loro pietra racconta, urla senza voce,
il loro eco ora giunge a noi,
moderni guerrieri dagli antichi ideali.

In conclusione, “De Ferro Italico”è una delle migliori release del 2011, e, oltre a potersi tranquillamente candidare come disco metal dell’anno, entra di diritto, anzi, per conquista, nell’olimpo degli album pagan/viking/epic metal, assieme a titoli come “Sagas” degli Equilibrium o “Valdr Galga”dei Thyrfing, tanto per citarne un paio.
Tra le migliori, si segnalano: “Ver Sacrum”, “Legio Lineata, “Inverno”e “De Ferro Italico”.
Orgoglio nostrano. Da non perdere.

VOTO : 9/10 
01. Dove l’Italia nacque
02. The Vitulean Empire
03. L’Augure e il lupo
04. Souvetaurilla
05. Ver Sacrum
06. Legio Linteata
07. Ballata d’autunno
08. Inverno
09. Roma Ferro Ignique
10. De Ferro Italico

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BLOOD RED WATER

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Recensione a cura di: Wild Wolf

TALES OF ADDICTION AND DESPAIR
-EP-

I nostrani Blood Red Water si delineano come uno tra i più affascinanti e, sicuramente, promettenti, gruppi della scena underground italiana, e, grazie a questo EP, mettono in luce una originalità d’intenzioni ed una capacità di composizione degne di nota fin dagli inizi della loro carriera artistica. La band, di origine veneziana, si forma nell’estate del 2010 grazie a Michele (il cantante, ex membro di band grindcore quali NAB e Grunter Screams) e Fiorica (ex bass-player, ora alla batteria), due amici di vecchia data uniti dalla passione per lo sludge metal ed intenti a creare qualcosa di malato. La band registrerà poi l’ingresso di Francesco come chitarrista, immediato, e quello di Lorenzo Petri, alias Tarantula, come bassista, più tardivo, per porre così, finalmente, le basi di un comune progetto, proprio ed originale. Il risultato, nonché loro prima opera, che vedrà la luce del sole, dopo quella artificiale della sala prove, nel 2011, sarà un EP, dal titolo “Tales of addiction and despair” (titolo che, già di per sé, è tutto un programma), il quale si comporrà di cinque tracce, per una durata totale di 25 minuti. Fatta questa premessa, il genere che ci viene proposto dai BRW in questo loro lavoro non è nulla (come spesso accade per i lavori sopra la media e di pregevole fattura) di facilmente etichettabile: c’è chi dice doom, chi stoner, e chi sludge, e la stessa band, tra le proprie maggiori influenze, cita gruppi che variano notevolmente di stile, dal doom (quasi heavy) dei St.Vitus fino allo sludge misto hardcore punk proveniente da New Orleans, e, nel caso, firmato dagli Eyehategod. A parere di chi scrive, l’intero EP è intriso di tutte queste sfumature, che, su una strada tracciata da forti distorsioni di chitarra e di basso, si rincorrono e si mischiano ad un tempo stilistico tipicamente punk cadenzato dalla batteria, con l’unico fine di alienare e soffocare l’ascoltatore, rinchiudendolo in una prigione colma di fango e sporcizia.  Andando ad esaminare le tracce singolarmente, reminiscenze riconducibili anche ad ulteriori, rispetto a quelli già citati, generi musicali non mancano: è questo il caso di Ungod, la prima traccia, la quale per tutto il primo minuto (il quale potrebbe anche considerarsi un intro a sé rispetto a tutto il resto dell’EP) ci riporta alla mente sensazioni in pieno stile doom metal, con una certa tendenza verso il funeral doom, tipico, fra le altre, di quella scena un po’ depressiva dell’underground australiano (Abyssmal Sorrow, tanto per citarne uno); la chitarra, ma soprattutto il basso, grazie alla sua quarta corda, pesantemente distorti, vengono suonati ad un tempo molto lento (una nota ogni quattro battute), contribuendo così a creare un alone nero che pare pronto ad avvolgere tutto, mentre la batteria si limita a fare da metronomo. Passato questo primo minuto, la traccia si reinserisce su binari tipicamente doom/sludge, che non abbandonerà più fino alla conclusione dell’EP; la batteria, non più minimale, inizia a scandire i tempi, si inserisce il cantato in pieno stile hardcore punk, mentre gli strumenti, costantemente distorti, continuano a creare un’atmosfera soffocante. C’è, in ogni caso, da registrarsi il dato per cui questa prima traccia manterrà una sofferenza ed una oscurità non tanto facilmente riscontrabili in altra traccia di “Tales of addiction and despair”, se non, comunque, in maniera meno visibile, verso la fine del quarto brano. Molto suggestivo il passaggio di basso intorno al minuto 4:10. La seconda traccia, “Consideration/Commiseration”, è maggiormente riconducibile alle loro radici, e, probabilmente, a ciò che hanno voluto comunicare con questo EP: il drumming si fa più costante, gli strumenti comunicano una maggiore energia, e la sei corde inizia a prendere maggiormente piede, suggellando il proprio “dominio” sonoro nella terza traccia, “Avoid the Relapse”. In questo brano risalta maggiormente una inclinazione verso uno stoner metal riconducibile agli Acid Bath, il cantato non è più gridato, ma è disegnato da una voce roca, hard-rock style, e tutto lo spirito della canzone, forse esagerando un po’, presenta una vena rock’n’roll, dipinta da dei riff di chitarra non più spessi e laceranti, come ci insegna la scuola del classico doom metal, ma più veloci e leggeri, al tempo di un drumming sicuramente più dinamico rispetto alle tracce precedenti, ed il tutto accompagnato e “riempito”, per così dire, dal basso, che fa sempre la sua parte, molto bene, e si fa sentire. Unica pecca, forse, è che, esaminando la canzone da questa prospettiva, l’ultimo minuto della stessa, che, negli intenti, voleva farsi riconoscere come più aggressivo e sporco rispetto al resto della traccia, coadiuvato da una voce che torna ad essere gridata, mal si amalgama al resto della struttura del brano, e risulta, di conseguenza, un po’ forzato. Anche se, probabilmente, si tratta di una critica più dettata da una sfumatura di gusto personale che da un vero difetto strutturale della traccia. Il quarto brano, “Modern Slave Blues”, torna ad ambientazioni più soffocanti rispetto alla traccia precedente, e più riconducibili a “Consideration/Commiseration”, con la differenza, però, rispetto a quest’ultima, che qui la batteria detta un tempo più costante e massiccio, meno ritmato, ed il cantato si fa, secondo dopo secondo, sempre più marcio e sporco, mentre la chitarra, dapprima sovrasta sonoramente (chiaramente, per scelta) tutte le altre sensazioni acustiche, e poi, nel finale, si lascia andare a malate distorsioni. Il tutto culmina in un risultato, come prima anticipato, che si interseca e si riallaccia al primo brano. “Modern Slave Blues” è forse, ma anche con buona probabilità, la traccia più cinica dell’EP. EP che, quindi, si chiude con la traccia, dal nome, già di per sé, molto esplicativo, “The Perfect Mix”. In quest’ultimo brano avviene la sintesi di tutte le componenti sopra citate: riconosciamo un intro sporco e infangato degno del miglior Doom/Sludge Metal, il cantato in stile hardcore punk, gridato, ma anche teso e tirato molto più che nel resto dell’EP, ed improvvisi cambi di ritmo e “schitarrate” tipiche dell’Alternative Metal. Ma soprattutto arriva, come un fulmine a ciel sereno, al minuto 2:08, una combo che è propria e caratterizzante, per lo più, della scuola black metal: dapprima, un cantato che diventa quasi scream, lacerante e sofferente come mai prima nell’EP, chitarra e basso distorti all’inverosimile, tempo tenuto da un drumming violento ed incessante, e poi, improvvisamente, dopo 20 secondi pieni, arriva uno stacco dove la batteria torna a fare solo da metronomo, si sentono, nel solo sottofondo, pesanti distorsioni, mentre Michele inizia a coprire tutti i suoni con ciò che, più di tutto, sembra un dolorante monologo. Da quel momento in poi la traccia riprenderà i connotati tipici dello sludge metal per condurci, nei restanti ultimi tre minuti, tramite spessi ed infestanti riff di chitarra, alla conclusione dell’EP. Da citare, qui, l’opera di Fiorica, poiché la batteria si dimostra all’altezza di una traccia tanto eclettica, così come è pure da citare, per amore, oltre che della musica, anche del cinema, il monologo sul vestito rosso di Ellen Burstyn in “Requiem For a Dream” di Aronofsky, che chiude, come meglio non si poteva, questo lavoro. Tutte queste cose considerate, e, tirando le somme, si può dire che i BRW hanno realizzato un lavoro di pregio, non particolarmente innovativo ma brillantemente originale, non incredibilmente tecnico ma dannatamente efficace, dove l’ascoltatore, se riuscisse a farlo, respirerebbe fango e lerciume. Più di tutto, ci sono, eccome, idee a sufficienza, ed una capacità di scriverle notevole, nonchè un’abilità di tradurle in realtà ammirevole, tanto più considerando che questo è un EP completamente auto-prodotto. Di conseguenza, il voto a questa loro prima opera non potrebbe che essere positivo, e, oltre al consiglio, per tutti i fan dello Sludge, di non perdersi questo lavoro, anche un in bocca al lupo ai BRW per i loro futuri progetti, se lo meritano
voto: 7.5/10
01.Ungod
02.Considerations/Commiserations
03.Avoid the relapse
04.Modern slave Blues
05.The perfect mix

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APOCALYPTIC SALVATION

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Recensore: Ray Rayner

SKULLS’ COLLECTOR
EP

Finalmente vede la luce l’EP Skulls’ Collector, il nuovo demo degli Apocalyptic Salvation. Band emiliana nata nel 2007 che può decantare di altre due precedenti opere d’arte, il primo demo “Beginning of destruction” rilasciato nel 2009 composto da 4 brani che diede loro l’inizio di un’intensa carriera live ed il loro primo album autoprodotto “Celebration of Destruction” nel 2010. La band fin dagli esordi, continua ad evolversi rapidamente migliorando in maniera progressiva il sound che acquisisce maggiore potenza ed aggressività con testi ispirati all’Apocalisse, considerata come l’unica alternativa per la salvezza del mondo da un’umanità malata e succube della corruzione. Prendendo spunto da questi presupposti la band decide di pubblicare “Celebration of Destruction”. La stabilizzazione della line-up avviene nel 2011 tra Sandro Capellini (voce), Fausto Martinelli (chitarra solista) e Giovanni Morsiani (basso), con il resto dei componenti quali Alan Denti (batterista) e Gabriele Principe (chitarrista), nonché fondatori della DeathThrash metal band italiana, riprendono a comporre materiale innovativo che viene immesso nell’EP Skulls’ Collector reso disponibile dall’Aprile 2012, un capolavoro per i fan adoratori del genere death e thrash! Il promo in questione contiene 4 tracce con una durata di circa 15 minuti complessivi, manifesta delle influenze death particolarmente aggressive paragonabili ai Cannibal Corpse mescolato con un thrash simile a quello dei Kreator. Ha inizio con Skulls’ Collector, partenza abbastanza feroce per quanto riguarda i drumming che avanzano con colpi ancor più veloci nel susseguirsi per poi decelerare intorno la seconda metà della parte, sarebbe da fare un complimento al batterista Alan Denti che tiene testa per l’intera durata del brano, ad accompagnare il suono ritmico abbastanza bene è anche il chitarrista Gabriele Principe al quale bisogna porre un nuovo omaggio, la stessa cosa non si può dire dei growling che l’accompagnano in quanto risultano leggermente soffocati rispetto ai veri death growling, più o meno verso la fine si presenta un assolo di circa 18 secondi da parte del chitarrista solista Fausto MartinelliNothing Left To Massacre è molto simile a quella precedente ad eccezione della partenza, con la differenza di alcuni riff durante la prima e la seconda parte del brano, anche qui si può notare un assolo di circa 21 secondi verso la fine. Nella traccia Hunter il sound comincia a cambiare in modo discreto mentre si avvia con un growl abbastanza accentuato, questa volta il cantante Sandro Capellini si merita un tributo per la sua voce sufficientemente più reboante, in quasi tutta la durata ci sono alcune scalate ad un suono più leggero di brevi secondi che poi tende a risalire in pura velocità ed aggressività soprattutto riguardanti i drumming, intorno l’ultima parte viene effettuato un altro assolo di circa 11 secondi per poi concludere con una scarica di growling e screaming che rende la song attuale molto più mordace da questo punto di vista. Il demo si conclude con Riding The Apocalypse, è sicuramente quella più elaborata tra le 4, apertura con un’atmosfera bellica, il growling deciso esprime un senso di ribellione non per niente una marcia verso l’Apocalisse, il sound è un pizzico più vario rispetto alle precedenti ed anche un tantino più melodico, a collegarlo anche qui ci sono un paio di assoli che sfociano nei pressi della seconda metà con la durata di circa 20 secondi per il primo e uno successivo di brevissimi secondi.
Per il complesso si può dire che come EP non è male sia riguardante il sound che le tematiche. L’unica critica riguarda i growling che nei primi due brani risultano piuttosto bassi tanto da venir coperti dal suono della chitarra e della batteria.
01- Skulls’ collector
02-Nothing less to massacre
03-Hunter
04-Riding the apocalypse
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IN CASE OF CARNAGE

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Recensore: Gioele il Master
MEDICATION TIME

Primo EP di debutto per il six-piece romano In Case of Carnage, i nostri ci propongono in questi 17 minuti circa, un lavoro di registrazione ben curato e con dei bei suoni, è un death metal tecnico con sfumature core ed inserti prog. Per gli amanti del genere apprezzabile Endorphin Rush dove la componente principale del brano sono i breackdown lunghi e cupi, notevoli gli intrecci con gli sweep delle chitarre offerti da Simone e Massimo. I suoni della batteria risultano a primo ascolto poco naturali nonostante siano piacevoli ed interessanti, buona anche l’esecuzione dello scream di Helleonore, risultano un po’ anonime invece le parti in growl di Paolo. Bella anche Two Sides of A Man che offre inserti di stampo progressive, tutto sommato Medication Time ci presenta quattro pezzi piacevoli con un death senza infamia ne lodi ma sicuramente con molta personalità.
01-Endorphin Rush
02-Horryfin
03-Shrift
04 Two Sides Of A Man
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Male Misandria

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Recensore: Simon
E.DIN
Meno di 30 minuti (se non contorniamo l’ultima traccia di 10 minuti, che nasconde una breve ghost track) di marcio e furioso grindcore con spruzzate di parti metalliche death/trhash. Niente fronzoli per questo primo full-lenght autoprodotto dei friulani Male Misandria, brani che viaggiano impazziti sul minuto, per una totalità di ben 25 prezzi.  Non ci sono storie o qui si ama il genere oppure girate al largo, sicuramente sentirete l’odore putrefatto di rabbia decomposto vomitata da questa band italiana che usa la lingua madre per sputare tutte le loro angosce e frustrazioni quotidiane. I brani sono sparatissimi ed urlati da scream-core abbinato da profonde growl backing vocals. Ma dopo tutte queste schegge letali ecco che spiccano due brani che superano abbondantemente il minutaggio standar. Somni Specu con i suoi 2 minuti e 40 secondi che ci regala un tale old brutal style, tanto da ricordare certe cose dei primissimi Cannibal Corpse o Carcass, e Coscienza , dove superiamo i 3 minuti. La traccia parte oscura e lenta per poi riprendere ritmiche serrate ma nuovamente con passaggi death metal micidiali di vecchia scuola, rendendo questa traccia la più metallica del CD.  Concludendo ci troviamo ad un buon ed ispirato lavoro, certamente nulla di nuovo ma il genere in sè ha già detto tutto a suo tempo e si regge solo sull’attitudine, che qui vi è fresca grazie ad una rabbiosa ispirazione ed una viscerale coerenza. Se amate queste sonorità dategli un ascolto.

Voto 6.5

                                                           01. Sangue del Mio Sangue
                                                                  02. So I’m Cook
                                                                      03. Amorfe
                                                                  04. Earth Reset
                                                                 05. Somni Specus
                                                                  06. Convinzioni
                                                                    07. Non Siete
                                                            08. Homo Homini Homo
                                                                       09. Scriba
                                                                        10. Alba
                                                              11. Vomitsoapbubbles
                                                      12. Nella Culla Della Speranza
                                                                  13. Come Creta
                                                                      14. Cometa
                                                                      15. Certezze
                                                                    16. Daltonico
                                                        17. Money Turns Into Paper
                                                                 18. L’Amore Perso
                                                                  19. Coscienza
                                                                   20. Coerenza
                                                                    21. Idolima
                                                                     22. Noi
                                                                   23. Incendio
                                                                       24. Jizo
                                                        25. In Stagione Di Guerra

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